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«La vita uccise i migliori»: una ribellione milanese

Fotografia di Filippo Ilderico

Sono gli anni sessanta dell’Ottocento, e se gran parte della cultura e dell’attenzione è posta sulle tematiche risorgimentali, ci sono giovani che decidono di riunirsi in luoghi nascosti della città e dalla realtà circostante tra alcool e vita dissoluta: sono i bohémiens del nostro paese, quelli che daranno l’avvio al movimento della Scapigliatura. Il centro di irradiamento è Milano, «città più città d’Italia».

La scapigliatura è un movimento letterario che nacque in Italia negli anni sessanta nel XIX secolo e si ispira al movimento bohémien nato in Francia. Il termine «Scapigliatura» venne utilizzato per la prima volta da Cletto Arrighi nel romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio:

«[…] Questa casta o classe – che sarà meglio detto- vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la “Scapigliatura Milanese“» [1]

Da un lato la spiegazione di un termine, ovvero «Scapigliatura», calco del termine francese bohéme, ma dall’altra si ha subito una precisazione geografica: il centro principale di questo movimento letterario e culturale è la città di Milano, la «città più città d’Italia» [2], per dirlo con le parole di Giovanni Verga.

Alla base del pensiero e dell’arte scapigliata vi è un anticonformismo tendente alla ribellione. I poeti e gli scrittori scapigliati vivono la vita in maniera molto trasgressiva all’insegna dell’alcool e dell’abuso di sostanze stupefacenti.

L’ebbrezza di che consegue all’assunzione di questi «paradisi artificiali», citando Baudelaire, diventa parte fondamentale della vita dei giovani artisti a tal punto che la maggior parte di essi muore all’età di trent’anni o, come nel caso dell’autore di Fosca, Iginio Tarchetti, anche prima. 

La scapigliatura rappresenta una casta o nuova classe, ma non una scuola: eterogenee sono le esperienze come diversi sono gli esiti. Nonostante questo tra di loro condividono ideali e modi di pensare. Se eterogenei sono gli esiti, non altrettanto si può dire contro chi e cosa si rivolgono: opposizione contro i modelli dominanti e l’autoritarismo paterno. Il loro faro è la ribellione, figlia della loro voglia di bruciare l’esperienza e di porsi come “altri”: è proprio per questo che si danno all’ebrezza, all’assunzione di atteggiamenti contrari e polemici ad una cultura che si era consolidata nel corso del tempo.

L’alcol e l’abuso di sostanze stupefacenti possono essere considerato come una tecnica per eliminare in qualche modo dei freni, quelli che vigevano non solo nella vita, ma anche nella letteratura di quegli anni. Il modello letterario per eccellenza era il lungo romanzo storico: mentre ora, come scrisse Dossi, l’intento è quello di scrivere «frammenti di libri».

Gli artisti scapigliati iniziano ad assumere comportamenti irregolari, licenziosi e contrari a quella che era la moralità benpensante dell’epoca. L’ebbrezza anche interiore degli scapigliati, intesa quindi come una sorta di fame di vita sregolata, li porta a vivere senza una dimora fissa, cercando condizioni insolite per raggiungere una maggiore creatività.

Si pongono all’estremo di una società. Non vengono considerati «diversi», ma si considerano tali, dotati di un genio superiore ma incompreso, di un’ubriachezza di vita che non può rimanere stretta in quelli che sono i canoni di una civiltà borghese.

Emilio Praga, uno dei capifila degli scapigliati, ad esempio, muore in miseria distrutto proprio da quell’ebbrezza di cui in vita ha fatto un uso spropositato: viene distrutto dall’alcolismo a soli trentasei anni. Nelle sue raccolte poetiche si affiancano temi tipici del movimento scapigliato come l’anticlericalismo, l’erotismo, l’ostentata amoralità e il gusto del macabro, attraverso i quali l’autore mira a criticare i tradizionali valori etici e sociali ma anche ad attaccare i canoni stilistici tradizionali.

Un’ebbrezza che non è legata solamente al consumo di alcolici o di sostanze stupefacenti, ma anche in un modo altro di vivere i sentimenti e le passioni, senza quella misura e quel senso di regole sulla quale si basava tutto il resto.

In Fosca il narratore, facendo riferimento al suo amore per la donna, nel patto narrativo del romanzo scrive: «Più che l’analisi d’un affetto, che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito»[3].

Il tema di un amore quindi che, senza un metodo e una direttiva, si trasforma in una «passione d’amore», come l’omonima trasposizione cinematografica di Ettore Scola (’81).

Animi sregolati, ribelli ed ebbri di vita. La stessa vita che, come scrisse Arrighi parlando dei suoi compagni, scrittori e artisti che amarono l’arte con geniale sfrenatezza, «[…] uccise i migliori» [4]

Alessandro Crea


[1] Cletto Arrighi, La scapigliatura e il 6 febbraio, Ed. Mursia, Milano, 2018
[2] Giovanni Verga, I dintorni di Milano, in Milano 1881, Milano, Ottino, 1881, 424
[3] Iginio Ugo Tarchetti, Fosca, Feltrinelli, Milano, 2018
[4] Cletto Arrighi, IntroduzioneLa Scapigliatura e il 6 febbraio, Sonzogno, Milano, 1862

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