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Misero silenzio di un suicidio

Fotografia di Filippo Ilderico

In L’ultima giornata (1883) Verga dipinge il dramma di una morte in sordina consumatasi ai bordi di una Milano in festa la domenica dell’Ascensione.

È l’uomo dal dorso curvo che sfiora le camicie dei passanti seccati, l’ultimo sconosciuto sul cui passo lento inciampano i frettolosi, l’anima la cui assenza non angoscerebbe nessuno. Verga lo ritrova nel taglio basso della cronaca nera, ricostruisce la sua figura con le parole dei pochi che l’hanno notato con le braccia a ciondoloni tra le vie in festa, a contare i sassi lungo l’argine del canale. Nessun reclamo, nessun nome da accostare al viso fracassato dai vagoni in corsa, solo una manciata di erbacce sui resti poco riconoscibili, «un brutto vedere» [1]. Ed in paese si consuma la festa.

Con la raccolta di novelle Per le vie, Giovanni Verga torna negli anfratti urbani non più per vagheggiare storie borghesi di seduzione, come già in gioventù, ma per proiettare sul cemento di Milano la medesima visione disincantata della società delineata nelle campagne siciliane. Operai e sartine non fuggono il destino di degrado e miseria dei contadini, in pieno rispetto della filosofia deterministica dell’autore, per cui non esiste soluzione all’immobilismo a cui li condanna la legge di natura. Se nel clima di paese l’asprezza di vivere era in parte mitigata dal trovarsi accanto volti familiari, i borghi grigi acuiscono l’estraneità degli uni ai casi degli altri, l’anonimato allontana di mille miglia vite stipate nello stesso condominio.

Si perde facilmente nelle praterie a bordo città il grido d’aiuto, mai vibrato, di un uomo che prima di perdere il volto sulle rotaie, ha perso l’identità sotto la noncuranza di chi aveva incrociato il suo passo nel chiasso di botteghe e carrozze. C’è chi affermerebbe che sono state la disoccupazione e le finanze ridotte all’osso a spingerlo sotto il ferro delle ruote, valutando quindi l’estremo salto quasi come una conseguenza logica. In questo quadro, invece, la miseria economica non può prescindere dalla miseria umana di una società i cui rapporti sono retti dalla convenienza: se la solidarietà sopravvive anche nelle carenze di denaro, non c’è patrimonio che possa curare l’indifferenza. Difficile dire se il conforto e l’ascolto di un amico o di un famigliare avrebbero potuto porre rimedio al progetto di morte; è sicuro, però, che l’assenza di questi inevitabilmente spegne ogni possibilità di salvezza.

Le orchestrine non hanno mai smesso di suonare, le fanciulle di ballare e i ragazzi di seguire con occhi avidi le balze delle gonne alzarsi – «Viva l’allegria! Una bottiglia scaccia una settimana di malinconia» [2]. Da chiacchiera disimpegnata, presto, il clamore del suicida si dileguerà dai pensieri dei pochi che ne sono stati toccati, il caso verrà archiviato e il rapporto di polizia finirà in un qualche scaffale polveroso per mano di un agente distratto.

La vita spentasi non trova seconde possibilità, mentre la società fallisce un’altra occasione di infrangere il muro di gomma che isola i suoi membri. Non si risana ancora oggi la miseria che inaridisce lo sguardo dell’umano al suo simile che, alieno a lui come a se stesso, si smarrisce tra i ciottoli di un qualunque vicolo in una qualunque città. È l’uomo dal dorso curvo che sfiora le camicie dei passanti seccati, l’ultimo sconosciuto sul cui passo lento inciampano i frettolosi, l’anima la cui assenza non angoscerebbe nessuno.

Alice Dusso


[1] G. Verga, L’ultima giornata, Per le vie, 1883
[2] Ibidem

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